Abbazia di Vallombrosa
Le Origini di Vallombrosa
La Congregazione dei Vallombrosani fu fondata da S. Giovanni Gualberto dei Visdomini, il quale nel 1015 (assieme ad alcuni monaci benedettini fuoriusciti dal monastero di San Miniato per contrasti con l’abate di quel monastero e con il vescovo di Firenze) si ritirò a Vallombrosa (in luogo detto Acquabella), unendosi a due monaci del monastero di Settimo (Paolo e Guntelmo) che ivi già conducevano vita eremitica.
Il Paradisino
L’ideale monastico di S. Giovanni Gualberto, ispirato alla regola benedettina, era di tipo cenobitico: gli aderenti erano tenuti a condurre vita comunitaria, improntata alla povertà, alla preghiera, all’ospitalità e al lavoro.
Dal cenobio dipendevano anche alcuni eremiti, i quali vivevano in solitudine nella foresta e facevano riferimento al cosiddetto Eremo delle Celle (oggi noto come “Paradisino”).
La riforma monastica avviata da S. Giovanni Gualberto introdusse anche la figura dei “conversi”, incaricati di tenere i rapporti con il mondo esterno in modo da permettere ai monaci di vivere in clausura e in raccoglimento contemplativo. L’opera di rinnovamento di S. Giovanni Gualberto portò alla fondazione di nuovi monasteri in molte parti dell’Italia centro-settentrionale e in Sardegna.
Fin dall’XI secolo nello Scriptorium dell’abbazia si cominciò a trascrivere libri liturgici, testi patristici, agiografici e classici: in esso lavorarono generazioni di miniaturisti, le cui opere sono oggi raccolte nelle più importanti biblioteche del mondo.
La formazione della proprietà. Ben presto il cenobio vallombrosano di Santa Maria cominciò a dotarsi di un sempre più ingente patrimonio fondiario, frutto, oltre che di acquisti, soprattutto di lasciti e donazioni: tra le più consistenti ricordiamo innanzitutto quella fatta il 3 luglio 1039 dall’abbadessa del Monastero di S. Ilario al Fiano, Domina Itta, che donò la parte dei suoi vasti possessi (che dalla Secchieta giungevano fino a Sant’Ellero, e che comprendevano terre agricole, boschi e pascoli) posta in prossimità del luogo ove si era radunata la comunità monastica (Vallombrosa, Diplomatico); in secondo luogo quella del 29 novembre 1103, con cui la contessa Matilde e il conte Guido Guerra donarono la metà del castello di Magnale e Pagiano comprese tutte le case, terre, vigne e selve che essi possedevano intorno al torrente Vicano e a Melosa (Vallombrosa: Diplomatico, Prot. II –7- di atti di donazione).
Nei decenni successivi, si andarono ad aggiungere a queste proprietà le terre di Paterno, Taborra, Tosi, Pitiana: si formò così una sorta di “signoria rurale” che dal Monte Secchieta scendeva fino alle sponde dell’Arno, a Sant’Ellero. Nel 1255 una bolla di papa Alessandro IV concesse al monastero di Vallombrosa l’ormai decaduta Badia di S. Ellero, con tutti i suoi beni.
Il “feudo” vallombrosano, sottoposto all’autorità monastica e dotato di propri statuti, continuò a mantenere una sua autonomia anche quando, intorno al 1280, il Comune di Firenze lo considerò parte integrante del proprio contado.
Dal XIII sec. l’Abate di Vallombrosa ebbe il titolo di conte di Magnale, e in questa veste nominava un suo vicario (chiamato Visconte, o Console, o Capitano), di durata annuale, incaricato di amministrare la giustizia all’interno della giurisdizione feudale. Nel 1346 venne eletto abate generale il Beato Michele Flammini che rimase in carica per 24 anni risiedendo sempre in S. Salvi a Firenze. Gli succedette (1372-1392) Simone Altoviti.
Le vaste proprietà vallombrosane, di cui si è vista l’origine, erano composte in prevalenza da terreni agricoli e pascolivi e in misura minore da quelli boscati.
Nell’estimo del 1377, il Monastero di Vallombrosa risultava possedere 62 unità tra poderi e appezzamenti sparsi, divisi tra le tre fattorie di Paterno, Pitiana e Sant’Ellero; a quella data nell’Abbazia vivevano 124 persone (tra cui l’abate, un notaio, un famiglio).
Le fonti danno notizia che già in questo periodo esisteva la figura del “vergaio” incaricato dal monastero a “menare in Maremma, a tutte sue spese vernare e rimettere tutte le pecore, agnella e montoni della Casa”, indice dell’importanza dell’allevamento per la vita economica della comunità (A.S.F., Corp. Rel. Sopp., 260, v.214 c. 26v), accanto ovviamente al commercio di legname, di cui si hanno in questi anni le prime testimonianze di vendita; ricordiamo a tal proposito che in Maremma esisteva l’abbazia di San Piero di Monteverdi, unita a Vallombrosa nel 1422, con annesse terre pascolive.
Nel 1422 le unità erano diventate 68 (33 spettanti a Paterno, 20 a Sant’Ellero e 15 a Pitiana) (A.S.F., Corp. Rel. Sopp., 260, v.125 c.1v).
Storia dell’Abbazia di Vallombrosa
L’attuale complesso abbaziale è il risultato di una serie di trasformazioni, ricostruzioni e aggiunte che si sono succedute a partire dall’XI sec..
La prima costruzione in pietra del monastero, che sostituiva l’oratorio e le cellette in legno, fu iniziata nel 1038 in seguito alla donazione della badessa Itta di S. Ellero.
La “Badia di S. Maria“, comprendeva il chiostro, l’aula capitolare, il refettorio, la cucina e il dormitorio; all’ingresso del monastero c’era una stanza per riscaldarsi nei mesi invernali (calefactorium).
L’abbazia era provvista anche di un orologio con soneria, probabilmente il primo dell’antichità.
Il complesso subì trasformazioni e modifiche già all’inizio del XIII sec. e ancora intorno al 1450, sotto la guida dell’allora abate Francesco Altoviti: a questo periodo risalgono il chiostro principale (con al centro un pozzo), la sacrestia e la scala di collegamento con il dormitorio, la torre posta al lato sud, il noviziato, il refettorio e parte della cucina monumentale.
A partire dal 1584 venne ricostruita la muraglia principale e quella del “palazzotto dell’abate“, un edificio che sorgeva nel luogo dell’attuale chiostro del Mascherone.
Successivamente, a seguito di alcuni incendi furono completamente ricostruiti il noviziato e la nuova sacrestia, progettati dall’architetto Gherardo Silvani, autore anche della facciata del monastero (1635-1640). Sotto le grandi arcate della facciata si trova l’Hospitium (restaurato nel 1958) sul luogo dell’antica legnaia.
A destra della crociera della chiesa, oltre l’ingresso della sacrestia, una porta conduce nel chiostro principale detto della Meridiana, risalente alla seconda metà del ‘400 e restaurato nel 1753: in quest’occasione furono murate le preesistenti arcate, e sui quattro lati furono aperti portoni e finestre; sulla destra del chiostro sono visibili i resti del muro perimetrale romaniche della chiesa, mentre sulla sinistra una porta immette nell’Aula capitolare, costruita nel XV sec., destinata alle riunioni della comunità monastica e del Capitolo generale della Congregazione in occasione dell’elezione dell’abate e del suo consiglio.
All’esterno del chiostro è visibile anche la meridiana: sullo stesso lato, all’ultimo piano, si trovano alcune sale della biblioteca, mentre gli altri piani sono destinati ad uso di foresteria. Dal chiostro si può accedere al vestibolo del refettorio, nel quale è situato un lavabo in pietra (1606), sormontato da una terracotta attribuita a Santi Buglioni e qui collocata nel 1758; il vestibolo collega la cucina monumentale al refettorio.
La cucina monumentale
risale anch’essa al XV sec., ed è dotata di un focolare a cappa piramidale a base esagonale del XVII sec., sorretta da sei pilastri; accanto al comune si trova pure il forno per il pane, mentre su due tavoli in pietra sono visibili alcune suppellettili dell’epoca.
Sulla sinistra del chiostro, mediante una scala in pietra, si sale all’appartamento abbaziale, affrescato da Antonio Cioci. Scendendo un’altra scala si arriva nel chiostro minore detto del Mascherone, che prende nome da una fontana tardo-cinquecentesca con una testa di leone fra due rosoni.
Sullo sfondo vi è la loggia a tre archi, opera di Alfonso Parigi, autore del chiostro della chiesa di S. Spirito a Firenze.
Usciti dal monastero, sull’angolo del lato sud, si innalza la torre quattrocentesca, alta 34 metri, e terminante con un ballatoio merlato. Su questo lato del monastero, un portone conduce, attraverso una scala quattrocentesca, all’odierna foresteria, un tempo adibita a dormitorio dei monaci: essa si articola in un grande corridoio (lungo 80 metri e largo 3,50), illuminato ai due estremi da due artistici finestroni e coperto con volte a botte, sui cui lati si aprono le camere per gli ospiti.
L’Antico Orologio
La realizzazione del primo grande orologio dell’Abbazia risale alla fine del XV sec.: nel 1493 infatti i monaci incaricarono il celebre orologiaio Carlo di Leonardo Marmocchi di costruire, sopra una delle torri, un “origiuolo” dotato di quadrante esterno, “acciò che lo officio divino et ogni altra cosa regulare si potesse facilmente condurre a tempi et hore convenienti, et inoltre ad consolatione così delli habitanti chome de’ forestieri e di chi vi passa“.
Il congegno venne accomodato nel 1575 e ancora nel 1595, ma nel 1607, trovandosi in cattive condizioni e costando troppo il doverlo così frequentemente riparare, venne sostituito da un “orivolo nuovo”, costruito dal fiorentino Agnolo di Bastiano Ducci, orologiaio al Mercato Nuovo di Firenze, al prezzo di scudi 50 e della cessione del meccanismo vecchio. Nel 1646 questo nuovo orologio, che si trovava su una delle torri dell’Abbazia ed era custodito dai giovani monaci, fu spostato sopra il campanile della chiesa ed affidato ad un sacerdote o ad un converso, al fine di sottrarne la conduzione ai novizi, che per imperizia o per dolo ne alteravano il funzionamento.
Nel 1651 e nel 1673 il congegno fu riparato dal maestro Marco da Porciano, e successivamente (1694) da Bartolomeo e Niccolò Fioppa da Firenze. Anche l’orologio seicentesco, dopo un secolo di vita, trovandosi in cattivo stato, fu sostituito (nel 1709) da un nuovo manufatto, dotato di batteria “alla romana” (suonante di sei ore in sei ore), costruito dal fiorentino Giovan Batista del Guasta: interventi di restauro si resero necessari ben presto (1717 e 1722, 1726 e 1728, e in ultimo 1737 per opera rispettivamente di Bernardo Bernardi, Sigismondo Mazzetti e Giovan Batista Bertoldi).
Nel 1750 per ordine del Granduca, tutti gli orologi “alla romana” vennero sostituiti con meccanismi “alla francese”, che suonavano ogni dodici ore: l’orologio vallombrosano venne adeguato nel 1754 per opera di Giovanni Batista Puliti, cuoco nella fattoria di Paterno e dilettante orologiaio.
Nel 1766 venne chiamato per svolgere nuovi lavori di riparazione un converso zoccolante, fra Giovanni da Empoli.
L’orologio, ormai inservibile, fu sostituito nel 1782 da uno nuovo, costruito da Giovan Batista Nuzzi per il prezzo di 70 scudi, pagati da fra Pellegrino Lucattini.
Questo meccanismo fu rimosso nel 1830, e al suo posto fu posto quello ancora presente, realizzato dall’orologiaio Camillo Bagnoli.
Si tratta di un orologio meccanico con telaio a castello con tre cilindri con fusto di legno su cui scorrono tre cavi sorreggenti pesi di pietra che mettono in movimento un ruotismo di ottone; la batteria suona 12 ore per 12 ore con le mezze ore ed i quarti. Lo scappamento è ad àncora a riposo di Graham. Il pendolo ha un’asta di acciaio unita al telaio con verga, ed ha la lente di lamiera di ottone ripiena di piombo. Sopra il telaio è apposta la seguente targhetta di ottone:
“CAMILLO BAGNOLI E FIGLI / FECERO L’ANNO 1830”.
L’orologio venne accomodato e modificato nel 1884 da Emilio Monechi, che aggiunse alcune ruote facendo suonare le ore sulla seconda campana del campanile.
(tratto da GIORGETTI R., “L’antico orologio dell’abbazia di Vallombrosa”, in “Corrispondenza”, n.34 (1998), pp.29-31)
Bibliografia
Testo di Mantovani M. (Cornucopia)
La Biblioteca
Sullo stesso piano della foresteria si trova l’ampio salone della biblioteca, costruita nel tardo ‘500 da Alfonso Parigi; durante le soppressioni furono asportati molti manoscritti ed opere a stampa, e totalmente distrutti gli arredi. Le pareti sono ornate da una grande tela dipinta ai primi del ‘600 da Arsenio Mascagni, mentre al centro della sala è collocato un tavolo ottagonale ad intarsio policromo del 1852. L’attuale scaffalatura è della prima metà dell’800.